attualita

Gimbe: 4.824 sanitari contagiati, il prezzo pagato all’impreparazione

24 Marzo 2020

Farmacisti, medici, infermieri e professionisti della salute stanno pagando un prezzo molto caro all’impreparazione organizzativa e gestionale con cui il Paese sta affrontando l’emergenza. E’ la denuncia che arriva dalla Fondazione Gimbe (Gruppo italiano per la medicina basata sull’evidenza) di fronte agli ultimi dati dell’Istituto superiore di sanità: sono 4.824 gli operatori sanitari che hanno contratto il coronavirus dall’inizio dell’epidemia, ossia il 9% del totale dei contagi; un’incidenza, scrive il Gimbe in un comunicato, «più che doppia rispetto a quella della coorte cinese analizzata da uno studio pubblicato su Jama (3,8%)».

La Fondazione, così, punta il dito sull’assenza di raccomandazioni nazionali e sui protocolli locali improvvisati; sulle difficoltà di approvvigionamento dei dpi; sui mancati tamponi agli operatori sanitari; sulla formazione ai sanitari che non è stata fatta. Tutte queste attività, ricorda la nota del Gimbe, erano previste dal Piano nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale predisposto dopo l’influenza aviaria del 2003 e aggiornato nel 2006. «È inspiegabile» osserva il presidente della Fondazione, Nino Cartabellotta «che tale piano non sia stato ripreso e aggiornato dopo la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale del 31 gennaio».

L’assenza di policy regionali univoche sull’esecuzione dei tamponi agli operatori sanitari, conseguente anche al timore di indebolire gli organici, prosegue il Gimbe, «si è trasformata in un boomerang letale: gli operatori sanitari infetti sono stati grandi e inconsapevoli protagonisti della diffusione del contagio in ospedali, residenze assistenziali e domicili dei pazienti».

Per tale ragione, la Fondazione invita tutte le Regioni, sulla scia di quanto già deliberato in Emilia Romagna e Calabria, a mettere in cima alle priorità l’esecuzione di tamponi su tutti gli operatori sanitari, in ospedale e sul territorio, con particolare attenzione ai professionisti coinvolti nell’assistenza domiciliare e nelle residenze assistenziali assistite, oltre che in case di riposo.

Tra gli inviti, anche quello di rivedere le istruzioni dettate il 14 marzo dall’Istituto superiore di sanità per razionalizzare l’uso dei dpi. Tali indicazioni, scrive il Gimbe, «riprendono quasi interamente le raccomandazioni pubblicate dall’Oms il 27 febbraio, ma non quelle dell’Ecdc (European centre for diseases prevention and control)», ma recano una distorsione di fondo: le istruzioni si basano sul presupposto che le scorte mondiali di dpi, in particolare mascherine e respiratori medici, siano insufficienti per fronteggiare l’emergenza pandemica. «Le linee guida invece» obietta la Fondazione «dovrebbero essere basate sulle migliori evidenze scientifiche, lasciando poi ai singoli paesi, la possibilità di definire le priorità in relazione a necessità, disponibilità ed eventuali difficoltà di approvvigionamento».

Il documento dell’Istituto superiore di sanità, per di più, «contiene raccomandazioni inapplicabili in ambito ospedaliero e insufficienti a garantire la massima protezione degli operatori sanitari. «Le evidenze scientifiche» osserva Claudio Beltramello, medico igienista, componente della faculty Gimbe, già collaboratore del dipartimento Prevenzione e controllo delle malattie infettive dell’Oms «dimostrano che in setting assistenziali le mascherine chirurgiche non proteggono adeguatamente i soggetti sani che vengono a contatto con un soggetto infetto». «Confidiamo» è la conclusione di Cartabellotta «che l’Istituto superiore di sanità proceda a una revisione del documento, che tutte le Regioni dispongano tamponi per tutti gli operatori in prima linea contro l’emergenza e che la fornitura di mascherine per medici, operatori sanitari e pazienti – annunciata ieri da Domenico Arcuri, commissario straordinario per l’emergenza coronavirus – sia adeguata alle migliori evidenze scientifiche».