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Cannabis light, il Consiglio di Stato rinvia le norme italiane alla Corte Ue

13 Novembre 2025

«La normativa italiana che vieta l’uso di foglie e infiorescenze di canapa sativa, anche quando il contenuto di Thc rientra nei limiti fissati dall’Unione europea, potrebbe essere in contrasto con il diritto comunitario». È questa, in estrema sintesi, la questione che il Consiglio di Stato ha deciso di sottoporre alla Corte di giustizia Ue, sospendendo il giudizio sul cosiddetto caso “cannabis light” con l’ordinanza 8839 del 12 novembre.

La decisione dei giudici di Palazzo Spada apre un nuovo capitolo in una vicenda che da anni vede contrapporsi, da un lato, produttori e associazioni di categoria – tra cui Federcanapa e Canapa Sativa Italia – e dall’altro lo Stato, rappresentato dai ministeri della Salute, dell’Agricoltura e dell’Ambiente. L’oggetto del contendere è la legittimità del divieto imposto dall’Italia all’utilizzo delle parti non stupefacenti della pianta di canapa sativa, in particolare foglie e infiorescenze, anche quando la percentuale di tetraidrocannabinolo (Thc) non supera lo 0,2% – limite oggi riconosciuto dai regolamenti europei sulle varietà agricole.

Il Consiglio di Stato ritiene che tale divieto, fondato sul Dpr 309/1990 e sulla legge 242/2016, possa entrare in conflitto con gli articoli 34-38 del Trattato sul funzionamento dell’Ue, che garantiscono la libera circolazione delle merci, e con i regolamenti agricoli europei (in particolare 1307/2013 e 1308/2013) che ammettono la coltivazione e l’uso di varietà di canapa certificate. Due i quesiti principali che i giudici italiani hanno inviato a Lussemburgo: se la normativa nazionale, così come interpretata dal diritto vivente, possa legittimamente vietare l’utilizzo delle parti della pianta non contenenti principio stupefacente, e se tale divieto sia compatibile con i principi di concorrenza e libera circolazione sanciti dal diritto europeo

Il rinvio pregiudiziale segue una precedente ordinanza (8813/2025) con cui la stessa Sezione aveva già sospeso un altro procedimento analogo. Nelle motivazioni si sottolinea che la normativa italiana, equiparando di fatto la “cannabis light” a quella stupefacente, produce una disparità rispetto ad altri Paesi membri dove la coltivazione e commercializzazione di canapa a basso contenuto di Thc è consentita e regolata.

La controversia affonda le radici nella legge 242 del 2016, che aveva introdotto la possibilità di coltivare canapa industriale per scopi alimentari, tessili e cosmetici, ma senza riconoscere l’utilizzo di foglie e infiorescenze. Successivi interventi della giurisprudenza – in particolare la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione del 2019 – hanno confermato l’interpretazione restrittiva, stabilendo che la vendita di tali derivati restasse vietata, salvo che non fossero “in concreto privi di efficacia drogante”. Il risultato è stato un quadro normativo incerto, con centinaia di imprese agricole e negozi colpiti da sequestri e procedimenti penali nonostante operassero nel rispetto dei limiti europei.

Ora la parola passa alla Corte di giustizia, che dovrà chiarire se l’Italia possa mantenere un divieto generalizzato o debba allinearsi alla disciplina comunitaria. Una decisione favorevole ai ricorrenti costringerebbe il legislatore a riscrivere le regole del settore, con ricadute significative sul piano economico e sanitario. Secondo le associazioni di produttori, un’interpretazione conforme al diritto europeo consentirebbe di sviluppare una filiera agricola sostenibile e di promuovere la tracciabilità di prodotti già diffusi nel resto dell’Unione.

In attesa del verdetto di Lussemburgo, il Consiglio di Stato ha sospeso il giudizio nazionale. «La questione – si legge nell’ordinanza – presenta profili di rilevante impatto economico e normativo, tali da rendere necessario l’intervento chiarificatore della Corte». Una volta arrivata la risposta, l’Italia dovrà decidere se difendere la linea del divieto assoluto o riconoscere pienamente la compatibilità della “cannabis light” con il diritto dell’Unione.