I farmaci potrebbero presto diventare un’arma politica nel gioco delle relazioni tra Cina e Paesi occidentali, Usa e Unione europea davanti a tutti. È l’allarme che lancia l’economista Mario Seminerio in un corsivo pubblicato sul suo blog Phastidio.net: firma autorevole di testate come Il Fatto Quotidiano, Il Foglio e LiberoMercato, Seminerio avverte nel suo articolo come la Cina abbia ormai assunto un «primato globale» nel settore farmaceutico, in particolare nella produzione di ingredienti attivi farmaceutici (Api, Active Pharmaceutical Ingredients) e nei cosiddetti “key starting materials”, ossia le sostanze chimiche, materie prime o intermedi, necessarie per la sintesi commerciale degli Api. «Il potere della Cina risiede nel suo controllo sulla fornitura globale di ingredienti attivi farmaceutici», osserva l’autore.
Per la filiera farmaceutica la constatazione ha la sua rilevanza: se le filiere globali spostano i gangli strategici della produzione fuori dei tradizionali poli, ciò significa rendere vulnerabili a scosse geopolitiche il sistema di approvvigionamento e distribuzione e, in ultima analisi, la disponibilità dei medicinali. Seminerio al proposito è esplicito: «Se consideriamo un altro conflitto sino-americano come inevitabile, i farmaci possono rappresentare la nuova arma nelle mani di Pechino».
Il quadro presentato mostra come, a partire dal fondo della catena del valore, la Cina abbia progressivamente mosso la propria industria farmaceutica fino a una integrazione verticale della produzione che comprende la materia prima, la sintesi, l’Api e, in molti casi, il prodotto finito. Seminerio spiega che oggi «le aziende cinesi del settore pharma e biotech hanno indiscutibilmente le capacità di ricerca e innovazione per rivaleggiare con l’Occidente, e ormai per sopravanzarlo». Questo cambia radicalmente gli equilibri concepiti finora secondo il paradigma della globalizzazione e della competizione fra imprese in regime di “vantaggio comparato”.
Un dato significativo: negli Stati Uniti nel 2002 l’83% dei medicinali consumati era prodotto internamente, mentre nel 2024 «quella percentuale è scesa al 37%». Una parte rilevante del decremento è dovuta alle importazioni da Cina e India. Seminerio cita anche stime come quella di Yanzhong Huang del Council on Foreign Relations, secondo cui circa il «30% degli ingredienti attivi della filiera farmaceutica statunitense provengono direttamente dalla Cina», quota che sale al «60% considerando il canale indiretto». Un recente report statunitense evidenzia che quasi 700 medicinali statunitensi usano almeno un ingrediente chiave prodotto esclusivamente in Cina.
Seminerio, infine, presenta il «modello cinese» come elemento di discontinuità: lo Stato-impresa cinese supporta con sussidi, elettricità agevolata, prestiti pubblici agevolati, assenza di regolazioni ambientali severe, protezioni del lavoro e della proprietà intellettuale ridotte rispetto agli standard occidentali — e senza ispezioni “surprise” delle autorità regolatorie come quelle che caratterizzano la regolamentazione Usa. «La competizione cinese non deriva dai vantaggi comparati ricardiani in un mercato operante in regime di libera concorrenza» ammonisce l’autore «le aziende farmaceutiche cinesi beneficiano di un pervasivo sostegno di Stato».
Inoltre, l’integrazione verticale ha permesso in Cina la creazione di “hub” industriali vasti, dove un produttore può rifornirsi in un unico contesto di materie prime, intermedi e Api, riducendo tempi, logistica e costi di trasporto».
Dal punto di vista operativo, per la filiera della farmacia europea emergono due implicazioni concrete. Primo: la dipendenza dall’estero – in particolare dalla Cina – per ingredienti fondamentali significa che shock esterni (una disputa commerciale, un blocco logistico, regolazione geopolitica) possono tradursi in scarsità o ritardi anche nei medicinali generici, dove la Cina ha un dominio forte (e che rappresentano circa il 90 % dei farmaci prescritti negli Usa, ricorda l’analista). Secondo: la necessità di riflettere sul principio della “strategicità” della produzione farmaceutica, non solo come problema aziendale o distributivo, ma come questione nazionale o europea. Seminerio suggerisce che «l’Occidente dovrebbe fare blocco per concorrere con la Cina, assicurando l’assenza di dazi per sviluppare il mercato comune», ma osserva anche l’ostacolo culturale-organizzativo proprio dell’Europa.
L’analisi conclude con un avvertimento finale: «la minaccia è troppo grande per essere ignorata», anche se al momento l’immagine della Cina di “potenza tranquilla e affidabile” frena scenari più aggressivi. Il potenziale è lì e non va assolutamente ignorato.