È uscito sulla Gazzetta ufficiale di sabato scorso, 6 luglio, il decreto del ministero della Salute che inserisce il cannabidiolo nella tabella delle sostanze stupefacenti, consentendone di fatto la vendita soltanto nelle farmacie e su ricetta medica non ripetibile. Il provvedimento è l’ultimo atto di una lunga querelle che ha visto susseguirsi pareri, decreti e sospensive della giustizia amministrativa, l’ultima quella del 5 ottobre 2023 pronunciata dal Tar Lazio che aveva sospeso un precedente decreto del Ministero simile nella forma all’attuale.
In seguito a quell’intervento, il ministero della Salute aveva richiesto a Istituto superiore di sanità e Consiglio superiore di sanità nuovi pareri sui rischi di induzione alla dipendenza derivanti dal consumo di sostanze a base di cannabidiolo, che i due enti consultivi hanno confermato.
Chi contesta il provvedimento, invece, ricorda la posizione dell’Oms, che nel 2017 aveva ufficialmente raccomandato l’esclusione del Cbd dalle sostanze controllate, e una sentenza della Corte di giustizia Ue del 2020, che ammetteva divieti di commercializzazione del cannabidiolo «soltanto qualora tale rischio risulti sufficientemente dimostrato».
Per tali motivi, l’associazione Imprenditori canapa Italia ha annunciato che chiederà a Istituto superiore di sanità e Consiglio superiore di sanità i loro pareri, per eventualmente impugnarli «perché vanno in direzione contraria a tutta la letteratura scientifica disponibile». Il sospetto, in particolare, è che «questa serie di manovre legislative possa essere volta a favorire indebitamente le case farmaceutiche, consegnando loro un mercato dal grande potenziale economico. Questa preoccupazione nasce dall’apparente intenzione del governo di restringere l’accesso al Cbd attraverso la medicalizzazione forzata, un’azione che sembra avvantaggiare esclusivamente le grandi aziende farmaceutiche a discapito dei piccoli produttori e degli operatori del settore della canapa».