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Infermiere di famiglia, Fnopi: servono quorum e ambiti come per i medici

29 Gennaio 2020

Più che chiamarlo “infermiere di famiglia” sarebbe meglio definirlo “infermiere di comunità”, perché il territorio è il suo ambito elettivo e anche per questa figura, così come per medici di famiglia e farmacie, dovrebbero essere definiti bacini di popolazione con un quorum medio, variabile in base ai contesti. Sono alcune delle indicazioni fornite ieri dalla Fnopi, la Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche, davanti alla Commissione Igiene e sanità del Senato. L’audizione mirava ad approfondire i contenuti del disegno di legge 1346, primo firmatario Gaspare Antonio Marinello (M5S), che si propone di introdurre la figura dell’infermiere di famiglia.

Per la Federazione, il ddl dovrebbe garantire l’applicazione uniforme in tutte le Regioni delle disposizioni contenute nel nuovo Patto per la salute in materia di assistenza infermieristica, in particolare per lo sviluppo dell’infermiere di famiglia/comunità. «Questa figura» ha spiegato Nicola Draoli, componente del Comitato centrale della Federazione «agisce su livelli individuali, familiari e comunitari, in modalità proattiva. Per mettere a regime il modello, è quindi importante che l’infermiere di famiglia abbia un bacino di popolazione di riferimento, che racchiuda tutti e non solo persone già inserite in un registro di cronicità e bisogno assistenziale».

L’infermiere di famiglia, di conseguenza, «deve diventare un riferimento riconoscibile e raggiungibile liberamente, sia dalla popolazione di riferimento sia dai medici di medicina generale e dai pediatri di libera scelta che hanno in carico quella stessa popolazione. E ovviamente, tale accessibilità va garantita anche nel senso opposto, cioè dall’infermiere al medico».

I dati presentati dalla Fnopi ala Commissione, dimostrerebbero che dove il modello è già attivo l’infermiere di famiglia evita ricoveri impropri, previene e diminuisce le complicanze, promuove autocura e consapevolezza. Da cui appropriatezza clinica ed economica, armonizzazione dei percorsi di assistenza e cura, decremento dei contenziosi sanitari. Ma soprattutto, l’infermiere di comunità è in grado di dare una risposta ai bisogni delle persone che dopo brevi esperienze di ricovero necessitano di assistenza prolungata o addirittura stabile.

«Sul territorio» ha continuato Draoli «serve almeno un infermiere ogni 500 assistiti, ossia circa 20mila infermieri di famiglia/comunità». Questa figura, infatti, «si è dimostrata quella che mantiene il più stretto contatto con il cittadino della propria zona di competenza. E rappresenta il professionista di riferimento che assicura l’assistenza infermieristica generale in collaborazione con tutti i professionisti presenti nella comunità».